Ringrazio Francesco Vignarca e Giorgio Beretta di “Rete Italiana per il Disarmo”, che abbiamo ascoltato ieri in Commissione Affari Esteri sulle operazioni di export militare normate dalla Legge 185/90, che ha pochi giorni fa “compiuto” 30 anni.
Rappresentano assieme a “Rete per la Pace” la società civile impegnata nell’efficacia della legge sugli armamenti e sulla cui riforma è in corso una riflessione che come Movimento 5 Stelle stiamo affrontando con attenzione e serietà.
Anche se a qualcuno piacerebbe porla in questi termini, l’export di armamenti non rientra nel commercio generico di prodotti commerciali, ma è subordinata e dunque conseguente alle linee e principi della politica estera del paese e del posizionamento geostrategico. Quello che è un dato importante, e che fa molto riflettere è l’aumento vertiginoso delle autorizzazioni italiane all’export di armamenti negli ultimi cinque anni. Non parliamo di un aumento graduale: la cifra è pari al totale esportato nei precedenti 15 anni.
Degno di nota anche le destinazioni principali in questi ultimi anni: il 56% vede l’export in paesi non Ue e non Nato, il 45% dei quali verso i paesi MENA, cioè Medio Oriente e Nord Africa, regioni in cui è facile che si possano riscontrare situazioni di conflitto, focolai di terrorismo, regimi militari ed autoritari.
Al primo posto, come ormai noto, c’è l’Egitto, dove in questi giorni il parlamento ha votato la possibilità per le truppe egiziane di combattere all’estero. Questo accade nello stesso momento in cui lo stesso Egitto discute una possibile entrata in campo in Libia, a sostegno del maresciallo Haftar, guida delle truppe in contrapposizione al governo riconosciuto delle nazioni unite. Tale decisione metterebbe l’Egitto davanti a un vero e proprio intervento militare, che tramuterebbe il nostro partner in un paese in guerra. Allo stesso tempo sarebbe anche un paradosso strategico già più volte evidenziato, visto il sostegno Italiano e Europeo verso il presidente Serraj, oppositore di Haftar.
Dalle testimonianze dei due esperti trapela come oggi vi sia una mancanza cruciale delle forme istituzionali per dare un vero e chiaro indirizzo politico, che negli anni si è man mano perso. Il controllo interministeriale che dava indirizzo politico al Parlamento e che possiamo riscontare nel passato, oggi ha perso forza decisionale ma vede soprattutto una situazione molto cambiata, come lo sono anche i conflitti nel mondo ed il rispetto dei diritti umani nelle sue molteplici forme: oserei dire che è persino difficile definire quali paesi siano in stato di conflitto armato.
L’UE avrebbe tutti gli strumenti per stilare un elenco vincolante di paesi in cui vi siano gravi violazioni dei diritti umani: le stesse Nazioni Unite hanno acclarato che l’Egitto è un paese che pratica la tortura abitualmente, soprattutto sugli attivisti e i difensori dei diritti umani invisi al regime. Perché allora per l’Italia non è possibile ostacolare la vendita di armi a tale paese?
Lo stesso vale per il Turkmenistan, al secondo posto delle nuove autorizzazioni italiane: sono stati venduti armamenti a quello che è ancora oggi è uno dei regimi più autoritari al mondo. Un dato su tutti: 0 esportazioni nel 2018, 446 milioni nel 2019.
Trovo, come membro di una forza di maggioranza, assolutamente importante comprendere se questa variazione di cifre sia una scelta politica imputabile al nostro lavoro di politica estera, e se sì, dove possiamo correggere il tiro in modo che la nostra posizione sia trasparente e soprattutto coerente.
Serve inoltre, come hanno ricordato gli auditi, conoscere il destinatario finale di ogni singola autorizzazione: non deve più accadere che armi Beretta (azienda leader italiana), siano vendute a Gheddafi come accaduto in passato, poi finite a Bengasi sul mercato nero.
Quindi, tra le proposte discusse, oltre ad un aggiornamento della Legge 185 oramai vetusta, oltre a una più chiara posizione italiana di obiettivi esteri, oltre a stilare una veritiera e coerente lista di paesi “a rischio” conflitto o violazione dei diritti, qualcosa spetta anche all’Europa: l’Ue potrebbe infatti dare lista paesi in conflitto e pretendere una gestione dell’export armamenti più coesa e organizzata da parte di tutti i paesi europei. Che trasparenza infatti hanno gli altri paesi UE?
Spesso pensiamo di essere il fanalino di coda, mentre in realtà l’Italia è decisamente un passo avanti rispetto agli altri paesi europei: le nostre tabelle sono eccezionali rispetto a quelle francesi, per esempio. La Francia però, controlla direttamente l’export di armamenti, mentre l’Inghilterra ha un’industria che fa molta pressione sul governo, creando una situazione molto simile a quella del nostro paese.
Curioso il caso della Germania, che ha approccio molto laico rispetto al nostro, ma poi usa la tecnica delle triangolazioni come nel caso famoso dell’RWM in Sardegna, tramite cui le armi tedesche finiscono in Arabia Saudita e poi in Yemen.
Infine due parole sulla riconversione, parola invisa alle case produttrici di armi ma molto importante, specie in alcuni ambiti di investimento: nella legge 185 c’è un fondo per la Riconversione, che non è mai stato attivato. La conversione a volta genera anche occupazione, va seguita e organizzata. Per fare un esempio concreto, sembra quasi incredibile, se vediamo la produzione di ferramenta, essa ha numericamente parlando molto più mercato degli armamenti.
Perché allora non vedere nella riconversione ed in altri settori emergenti come la Cybersecurity il futuro del nostro paese dal punto di vista della produzione di armi, soprattutto quelle destinate a conflitti come bombe e missili?