Il primo caso di Coronavirus? Proprio al confine tra l’Egitto e la Striscia di Gaza che sappiamo bene non essere un posto qualunque e dove la situazione è più preoccupante che altrove: coi suoi 360 km quadrati per 2 milioni di abitanti, l’epidemia potrebbe trasformarsi in un’odissea terribile.
Il sistema sanitario della Striscia, che vive un blocco via terra e via mare imposto da Israele da decenni, per via della lotta continua tra Hamas e Israele, da tempo è al collasso, e non è neanche in grado di provvedere alle normali necessità di una popolazione costretta a vivere in uno spazio ridotto, senza acqua corrente e senza energia elettrica garantita. Gli stessi ospedali, quelli che ad oggi non sono stati bombardati, hanno energia per circa 5 ore al giorno.
13 i casi accertati, diverse centinaia di persone in quarantena. Se dovessero necessitare di terapia intensiva, un aiuto concreto sarebbe quasi impossibile: I posti letto nella Striscia sono 2800 circa, che significa un posto letto ogni mille abitanti. Per non parlare dei ventilatori polmonari, che sono qualche decina in tutto. La stessa OMS tramite l’ufficio locale, dichiara che Gaza è in grado di ricoverare al massimo un centinaio di malati di coronavirus, e che mancano all’appello centinaia di medici, apparecchiature sanitarie e forniture mediche.
Le stesse misure di contenimento del virus imposte in tutto il mondo, qui sono inapplicabili: nel solo campo profughi di Jabaliah, uno degli otto nella Striscia, abitano 140 mila palestinesi in meno di due chilometri quadrati.
Matthias Schmale, Direttore di UNRWA sugli impatti del COVID19 a Gaza, racconta in un’intervista che su 100 persone che si dovessero ammalare almeno 5 di loro avranno bisogno di cure intensive.
Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per il territorio palestinese occupato, racconta inoltre “quest’area potrebbe diventare per l’infezione un incubatore, specialmente quando le persone rimangono bloccate in un’area densamente popolata in cui il sistema sanitario soffre della mancanza di finanziamenti, risorse mediche e attrezzature”.
A questo si aggiunge un’economia già fragile, che sta crollando per i blocchi imposti a tutta l’area israelo-palestinese, per il crollo del turismo religioso, che in questi giorni di Pasqua ci ha mostrato la Città Santa come non l’avevamo mai vista. Non esistono ammortizzatori sociali per la sospensione delle attività lavorative. Solo l’Autorità Nazionale Palestinese continua a garantire stipendi anche se per sopperire alla crisi ha assunto molto più personale del necessario, e nel frattempo l’Unione Generale dei Lavoratori Palestinesi, ha annunciato un fondo di dieci milioni di shekel (circa 2,5 milioni di euro) per lavoratori e disoccupati. E’ molto difficile procurare cibo e necessario alla Striscia, e sono sempre più necessari interventi di assistenza socio psicologica oltre ad una escalation della violenza di genere.
Una crisi del genere in un posto così difficile non potrà che avere ripercussioni nefaste. La crisi economica e occupazionale qui è già ai massimi livelli, come il prevedibile 70% di disoccupazione a causa del blocco della Striscia, indipendente dal coronavirus.
In tutto ciò, mentre si cerca di contenere i contagi per evitare una strage, Israele non perde tempo e approfitta di questa situazione per annettere ulteriori territori palestinesi nella Cisgiordania. E i Palestinesi denunciano: “Se restiamo a casa ci proteggiamo dal virus, ma finiamo per perdere le nostre terre”.